L'autrice,
la psicologa e psicoterapeuta Giuliana Proietti, sostiene, tra
l'altro, che: "fondare un'impresa .... non è cosa facile:
non basta avere un'idea, un progetto molto concreto, ma occorrono
anche competenze personali, esperienza e, soprattutto, una struttura
di personalità adeguata al ruolo" ed aggiunge:
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"Il
problema italiano, dicono alla Confartigianato,
è da ricercarsi nella carenza di infrastrutture,
nell' alto costo del
denaro,
nel fisco oppressivo,
nella burocrazia...
Tutto vero.
Ma
perché non considerare anche
il fatto che molti degli
imprenditori
che chiudono
(o che si suicidano) non siano
psicologicamente
predisposti
per svolgere questo mestiere?
Quanti di questi piccoli
imprenditori
in crisi
avrebbero preferito un tranquillo
posto di
lavoro alle Poste?
Come afferma la ricerca iniziale, la capacità
imprenditoriale non nasce dal nulla: se si vogliono creare menti
votate all'imprenditoria, questo imprinting di creatività e di
concretezza deve svilupparsi già alla scuola materna,
si deve
respirare nell'aria, si devono poter osservare esempi di successo e,
soprattutto, deve essere una scelta, non una costrizione".
Stimolata
dalla mia domanda:
"qual'è,
secondo Lei, la proporzione tra i piccoli imprenditori in crisi che
avrebbero preferito un tranquillo posto di lavoro alle Poste e quelli
che invece si sono arresi alla carenza di infrastrutture, all'alto
costo del denaro, al fisco oppressivo, alla burocrazia ?",
la
dottoressa Proietti precisa:
"premettendo
che la mia è solo un'opinione, (anche se, occupandomi fra le altre
cose di orientamento, ho modo di parlare con molte persone in cerca
di occupazione e dunque ne conosco gli umori e i ragionamenti)
ritengo che almeno un giovane imprenditore su due
avrebbe preferito
un lavoro diverso da quello di lavoratore autonomo, perché non sente
di avere le caratteristiche di personalità per fare l'imprenditore e
perché molto spesso in famiglia non ha ricevuto un'educazione ai
valori imprenditoriali (né ha esempi di successo da emulare)".
Ecco
la mia risposta, che sottopongo anche a voi, gentili frequentatori di
questo blog:
"...
Se i risultati della Sua
prospezione professionale sull'argomento trovassero un forte
riscontro nella realtà, credo potremmo dirci veramente nei guai a
livello di strategia-Paese. Come sappiamo, una delle forti
peculiarità dell'Italia è quel filo rosso, lungo quasi un
millennio, che lega ancora alcune nostre attività produttive con le
arti di bottega,
figlie ma anche madri dell'immensa tradizione
dell'arte italiana.
Lo provano i successi italiani nella moda, nel
design, nella produzione di gioielli, calzature, complementi di
arredamento e nel dettare al mondo l'esempio di una multiforme,
variatissima tradizione gastronomica.
Nei
secoli, le botteghe sono state, fattualmente e metaforicamente, le
fucine per il tramite delle quali l'arte è stata trasmessa
attraverso le generazioni, grazie alla pratica dell'apprendistato,
alla quale anche i figli di papà non sfuggivano,
tanto che il
fenomeno dei bamboccioni -mi consenta la facile ironia- era ignoto.
Non
è il caso, naturalmente, di vagheggiare un bel-tempo-che-fu, che
come sappiamo non esiste, ma concretamente rileviamo che, se l'Italia
sta in piedi, non è certo grazie a quanto le hanno sinora dato
la
FIAT et similia, le Poste e le strutture statali e parastatali,
i
salotti buoni e la concertazione degli stessi con quelli che
farebbero rivoltare nella tomba Giuseppe Di Vittorio.
E
non è certo grazie all'esaltazione di una socialità di
diritti-senza doveri, di una socialità priva di assunzione di
responsabilità personali, perché demandata ad altri, sotto la
protezione di un rapporto con (con) il lavoro che si pretende
esaurito nell'arco di una prestazione d'opera.
Il
lavoro è qualcosa di più alto che una banale, asettica prestazione
d'opera, come il sindacalismo di maniera (oggi pensionismo) lo ha
ritenuto di trattare. Un (vero) rapporto di lavoro autonomo, come
un'attività professionale o imprenditoriale, esalta il lavoro nella
sua completa, partecipativa dignità sociale.
Garantiamo
-ci mancherebbe altro- il diritto di chi vuole o, purtroppo, deve
confinare la propria giornata tra due timbri di cartellino, ma
facciamo tutto il possibile perché ai nostri figli venga additata -e
sia rispettata e favorita- la prospettiva di evolversi
lavorativamente in sintonia con una modalità operativa, anzi, di
vita, che è nel nostro DNA e che può riportare il nostro Paese ad
affrontare dignitosamente qualunque tipo di confronto".
Se
volete, il dibattito è aperto.